«Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto manca al giorno? Sentinella, quanto resta della notte?”. Risponde la sentinella: il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete domandate, chiedete, tornate e domandate ancora» (Isaia21,11-12).
C’ è un testo interessante di Luigino Bruni “In ascolto della vita. Nella notte e fino all’aurora” da cui riprendo alcuni passaggi che commentano il poetico testo di Isaia.
L’uomo di Dio sa che l’alba arriverà anche se non sa quando, e purtroppo sa che il buio continua. Ed allora innalza la preghiera dell’attesa e della speranza nel tempo della notte. Il profeta, vocazione che ci appartiene e che siamo chiamati a vivere ancor di più in questo particolare momento, è la “sentinella della notte”. Abita la notte, come tutti, ignorando, come tutti, il tempo dell’aurora. E’ “colui che sta”, che rimane al suo posto di vedetta notturna. E lì spera, attende, crede ma dà risposte che non può dare.
Dice il testo sacro che dialoga con i passanti, parla con i viandanti della notte: «Se volete domandate, domandate ancora, tornate a chiedere». Non sa dare risposte, ma non si rifiuta di ascoltare le domande. Il profeta, e quindi ogni battezzato, è la persona del dialogo notturno che non conosce risposte. Può solo condividere le sue uniche due certezze: che è ancora notte e che l’alba arriverà.
Qui possiamo individuare la nostra missione: amare questo nostro tempo davvero particolare, dialogare con tutti, coscienti che non abbiamo risposte, farsi compagni di viaggio, con le certezze che vengono dalla fede. A livello pastorale questo potrebbe comportare la scelta di non fare programmazioni, di non riprendere tutto come prima, di non concentrarci sul fare. E’ forse questo il tempo opportuno per ripensare più a fondo il nostro essere Chiesa. Non si tratta di risolvere dei problemi ma di avviare processi per seminare futuro e di farlo insieme, sinodalmente.
Proprio la pandemia ci ha costretti ad operare dei tagli nei nostri modi di fare abitudinari, ci ha insegnato a riconoscere la nostra fragilità, il fatto che nessuno basta a se stesso, che è il tempo di uscire dall’autonomia per percorrere cammini di comunione e corresponsabilità. Ripartiamo dalla propria fragilità, per metterla in relazione con quella degli altri e con la stessa fragilità del Dio. Egli si fa uomo ‘fragile’ come noi, non per risolvere i nostri problemi ma per generare una vita nuova.
Può esserci di aiuto quanto scrive il dott. Fabrizio Carletti: “Se è richiesto discernimento, creatività pastorale, è chiaro che nessuno può in anticipo sapere quale sia la pista da seguire. Dovremmo preoccuparci di creare un ambiente (una cultura) dove potersi confrontare apertamente, condividere e sperimentare continuamente, spazi in cui le persone possano svolgere una riflessione/discernimento serio per generare delle piste di lavoro che saranno in grado di percorrere. Per usare un’espressione più colorita: si tratta di allestire il palco più che di esibircisi sopra…Per fare questo occorre una comunità che condivida uno scopo, dei valori comuni, dei criteri: occorre garantire uno spirito comunitario, dove lo scopo (il perché) si intrecci con i valori e i criteri (il come) e con le prassi che si sperimenteranno (il cosa)”.
L’emergenza Covid-19 ha fatto emergere in molte realtà un laicato che si è trovato spiazzato. Si è cercato di coprire prima possibile un vuoto offrendo degli strumenti pronti, delle schede, dei video, dello streaming. Questo dice che, al di là delle espressioni in voga nella pastorale in questi anni, come corresponsabilità, ministerialità laicali, sinodalità, il laicato è chiamato a mettersi realmente in gioco con le situazioni. Insieme ci si può sintonizzare con il ‘sogno’ di Dio, maturare una visione, uno scopo che va al di là delle singole prassi, dei servizi, delle attività, degli incarichi, capace di aumentare il livello di coinvolgimento, creatività e impegno della comunità. Abbiamo davanti a noi un’opportunità, non fermiamoci sul fare ma lavoriamo sull’essere.