- Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Domenica scorsa, meditando la passione del Signore, dicevamo che in quel giovane, avvolto in un lenzuolo, che non si lascia afferrare dal nemico, fuggendo via nudo, potevamo vedere Gesù.
Anche nell’ultima cena, vissuta con i suoi, Cristo si presenta nella sua nudità: è l’ora della rivelazione di Dio, l’ora in cui viene tolto il velo, perché si manifesti la sua Gloria, la sua bellezza, il suo splendore. Ma questa Gloria si manifesta, non come il mondo si aspetta, ma nell’amare fino all’estremo.
Viviamo allora la cena pasquale, che questa notte arriva fino a noi, e anche se non abbiamo potuto compiere il gesto della lavanda dei piedi a motivo della pandemia, fermiamo la nostra attenzione sul racconto evangelico.
Gesù ad un certo punto “si alza, si leva dalla cena”. La parola “levarsi”, utilizzata dall’evangelista, vuol dire “risuscitare”, “risvegliarsi”: ci troviamo di fronte ad un gesto di amore, lavare i piedi, e l’amore, si sa, fa passare dalla morte alla vita, fa risorgere.
Quel “si levò dalla cena” fa intuire inoltre che non ci troviamo di fronte ad un gesto di purificazione, come si usava prima del pasto, ma nel cuore stesso della cena eucaristica, nel cuore del cristianesimo, cioè dentro l’amore che arriva fino all’estremo, fino alla fine, fino ai piedi dei discepoli, compresi quelli di Pietro che rinnega, quelli di Giuda che tradisce, quelli degli altri apostoli che, nella notte della passione, fuggono lasciando solo il Signore.
Ma non può non essere così: se l’amore si misura dal bisogno dell’altro, Giuda è quello che ne ha più bisogno perché è quel ‘perduto’ per cui il Signore è venuto.
Tra l’altro alcuni esegeti deducono dalla traduzione letterale, che il diavolo s’era messo nel cuore di far sì che Giuda tradisse – ha un cuore anche satana, un cuore menzognero, omicida – ora se è così, il vero protagonista della morte di Gesù non è Giuda, non è nemmeno Pilato, non sono i Giudei, ma il nemico dell’uomo da sempre, il Maligno.
L’evangelista annota poi che Gesù “depone le vesti”, non la veste, cioè il mantello, ma le vesti, quindi si spoglia, si manifesta nella nudità dell’amore, nella nudità del servo di Javè. E mette un telo, il grembiule del servo, perché in questo consiste la gloria di Dio, nell’essere servo. Sì, è proprio in questa nudità dell’amore, che si rivela l’essenza di Dio! Dio è Colui che ci serve perché è un Padre che ama i suoi figli. Lo spogliarsi di Gesù, il deporre le vesti allora è il segno del dare la vita, del consegnarla per noi.
Si dice ancora che Gesù “cominciò a lavare i piedi dei discepoli”. E’ interessante questo “cominciò”, come a dire che questo gesto si prolunga nel tempo, arriva fino a noi, fino a questa notte, e lo ritroveremo anche nel banchetto finale, quando il Signore stesso passerà a servirci.
Ecco, fin qui arriva l’amore di Dio, fino a lavarci i piedi, gesto di ospitalità e accoglienza, ma anche gesto di intimità della moglie col marito, come pure gesto di riverenza dei figli verso i genitori. Ecco la concretezza dell’amore di Dio che si manifesta in quest’accoglienza, questa ospitalità, questa intimità, questa riverenza.
Poi Gesù “cominciò ad asciugarli con il telo”. Dice il vangelo che il Padre ha messo tutte le cose nelle sue mani e in queste mani troviamo i piedi dei discepoli, i nostri piedi. Ora se l’uomo è il suo cammino, Gesù prendendo benevolmente i piedi tra le sue mani, non fa altro che prendere la nostra stessa esistenza, lavarla, rigenerarla, perché potessimo avere la capacità di camminare come Lui, di ricalcare le sue orme, di passare da questo mondo al Padre.
Infine Gesù “riprese le sue vesti”. Questo riprendere le vesti, significa che riprende la sua vita, perché ha il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo.
Ma il fatto curioso è che non si dice che si sia tolto il grembiule. Questo è la veste di Dio, quindi resterà per sempre. Questa cosa è sconvolgente. Ecco perché la chiesa, questa notte ci invita a contemplare il vero volto di Dio, così come si rivela in Gesù, un Dio ‘altro’, un Dio che non cerca servi ma che si fa servo, un Dio che non chiede doni ma che si fa dono, un Dio che non ha in mano tutti ma che si mette nelle mani di tutti, come avverrà fra poco nella comunione eucaristica.
Il rischio è di resistere, come fa Pietro, di fronte a questo amore gratuito, smisurato, esagerato, fino a pensare che Dio non può essere così. Eppure proprio in questo lasciarci amare, lasciarci servire, lasciarci lavare i piedi da Gesù, conosciamo chi è Dio e anche chi è l’uomo, chi siamo noi.
Non è difficile dire: Gesù è Dio, Gesù è il Signore, Gesù è Cristo; difficile è credere che il Cristo, il Figlio di Dio, il Salvatore, sia servo, sia colui che spezza la vita per noi, il Crocifisso. E’ davanti alla Croce che si pone il problema reale di Dio.
Questa notte ancora una volta ci è chiesta una conversione, ci è chiesto di volgere lo sguardo e contemplare il Signore, non come lo immaginiamo, ma come si rivela continuamente nel Cristo. Un Dio scomodo, perché se accettiamo che Dio si fa servo per amore, non possiamo non metterci anche noi a servizio gli uni degli altri.
Il peccato dicevano i greci è non conoscere che Dio è Padre, è oblio che Dio è Padre e che l’uomo è figlio. Forse questo è il tempo in cui, lo Spirito suggerisce, di mettere da parte tante discussioni inutili, dottrine e morali, per tornare all’essenziale, al fondamento della fede, e cioè riconoscere che Dio è Padre e che noi tutti siamo figli nel Figlio. E al figlio spetta imitare il Padre.
- Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.
Ecco allora il comando del Signore: “fate questo in memoria di me”, che non comporta solo il celebrare un rito, ma fare, nella quotidianità, quello che Gesù fatto: chinarsi a lavare i piedi del marito, della moglie, dei figli, dei genitori, degli anziani, degli ammalati, degli immigrati, dei senzatetto, di chi è perduto, di chi consideriamo nemici…! L’Eucaristia è il vivere ora, ciò che è accaduto allora.
Questo lavarci i piedi gli uni e gli altri e servirci, del quale Gesù ci ha dato l’esempio, è il fondamento della vita cristiana, è quello che diciamo Eucaristia, quello che ci porta a vivere da “fratelli tutti”, come auspica papa Francesco nella sua terza enciclica, dove tra l’altro si legge: “Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità.
Tra tutti: «Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme».[6] Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli! (n.8)
- Una preghiera particolare
Prima di concludere permettetemi, in questo giorno in cui è stata istituita l’’Eucarestia, di ricordare i nostri bambini che nei prossimi mesi si accosteranno alla prima comunione. Mi diceva don Gabriele che solitamente li si invitava a questa celebrazione, cosa non possibile in questa situazione pandemica, ma questa sera vogliamo portarli tutti, insieme alle loro famiglie, nella nostra preghiera.
Sappiano imitare il beato Carlo Acutis, ragazzino come loro, morto nel 2006, ad appena 15 anni per una leucemia fulminante. Dall’età di 7 anni non smise mai di partecipare all’Eucaristia da lui chiamata “l’autostrada del cielo”. Pur abitando, come ogni adolescente, questa terra e questo nostro tempo, navigando per il mondo digitale in modo geniale e creativo, è stato sempre fedele nel ricevere il dono dell’Eucaristia. Da questa comunione col Signore nasceva la sua attenzione verso il prossimo, soprattutto verso i poveri, gli anziani soli e abbandonati, i senza tetto, i disabili e le persone che la società emarginava e nascondeva. Non mancava di aiutare i compagni di classe, in particolare quelli che erano più in difficoltà. Una vita luminosa dunque tutta donata agli altri, come il Pane Eucaristico. Era questo il segreto per non morire “fotocopie” – come soleva dire – dopo essere stati creati “originali” dalla mano di Dio.
E in questa giornata in cui viene istituito anche il presbiterato, pregate per Francesco, ormai prossimo all’ordinazione, per don Gabriele che ha dato e sta dando la sua vita per questa comunità, e pregate anche per me, perché mai dimentichiamo che siamo stati unti per essere servitori, per servire tutti, senza distinzione.
Vorrei concludere con la preghiera di un grande vescovo, don Tonino Bello.
“Signore, se ci innamorassimo di te,
così come nella vita ci si innamora
di una creatura, o di una povera idea,
il mondo cambierebbe.
Accresci la nostra tenerezza per la tua Eucaristia,
verso la quale la disaffezione di tanti cristiani
oggi si manifesta in modo preoccupante.
Stiamo diventando aridi,
come ciottoli di un greto disseccato dal sole d’agosto.
Lascia che la nuvola della tua grazia si inchini dall’alto
sulla nostra aridità.
Signore, in te le fatiche si placano,
le nostalgie si dissolvono, i linguaggi si unificano,
le latitudini diverse si ritrovano,
la vita riacquista sempre il sapore della libertà.
Insegnaci a portare avanti nel mondo
e dentro di noi la tua Risurrezione.
Tu sei presente nel Pane,
ma ti si riconosce nello spezzare il pane.
Aiutaci a riconoscere il tuo Corpo nei tabernacoli scomodi
della miseria e del bisogno, della sofferenza e della solitudine.
Rendici frammenti eucaristici,
come tante particole che il vento dello Spirito,
soffiando sull’altare, dissemina lontano,
dilatando il tuo “tabernacolo”. Amen.