
«Dobbiamo scommettere che vale la pena metterci in cammino senza già sapere dove arriviamo: è il modo per rendere la vita un’avventura e non semplicemente un ripetere degli schemi già consolidati» (Giaccardi- Magatti, La scommessa cattolica, il Mulino)
Dal Libro dell’Apocalisse
1 Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, 2il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. 3Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino.
- UNA LETTURA SAPIENZIALE
Abbiamo bisogno di chi ci mostra ‘le cose che dovranno accadere’. Il testo dell’Apocalisse dice “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia”.
Scrive in un articolo Fabrizio Carletti: “Abbiamo bisogno di un sogno, di una profezia più che di discussioni sulle norme, su come aggiustare alcuni aspetti organizzativi appena si potrà ripartire, su come poter tornare prima possibile all’ordinarietà. Cos’è del resto l’ordinarietà se non una costruzione artificiale dettata dalle nostre abitudini!?! Martin Lutero usava questa definizione di ‘profezia’: “già vedo già sento dove arriveranno i miei passi”. Usa i verbi ‘vedere’ e ‘sentire’. Avrebbe potuto dire: io già so, capisco, comprendo. I verbi che invece usa richiamano il riconoscere qualcosa che è già in essere. Riconoscere un suono familiare di passi e l’orma lasciata sul terreno. La profezia non rivela il futuro ma un’azione che lo Spirito opera già oggi. L’azione dello Spirito in mezzo a noi. Occorre riconoscere che l’azione di novità non è la nostra ma dello Spirito, colui che fa nuove tutte le cose” (La novità nella Chiesa per una conversione pastorale).
Per affrontare questo tempo c’è bisogno allora di sapienza, che non è tanto una competenza, quanto un modo di vedere le cose con un’illuminazione che deriva dalla rivelazione. Ecco la necessità di mettersi in ascolto – si riceve ascoltando – e di confrontarsi – siamo dentro una carovana, senza sapere di preciso quale è il percorso – per arrivare alla terra promessa. Ora se la sapienza viene dall’alto, va invocata, richiesta, da qui l’importanza della “domanda”. A volte però le domande hanno bisogno di conversione perché, come quelle degli scribi e farisei, non cercano risposte, ma sono un modo per protestare, obiettare, contestare.
In questo periodo ci siamo più volte posti la domanda di cosa abbiamo vissuto e cosa ha vissuto la gente in tempo di pandemia, ora forse è arrivato il momento di chiederci: quali processi si possono avviare a livello personale e comunitario? Anche noi abbiamo bisogno di pensare quale ripartenza attuare in tempo di covid-19!
- UNA LETTURA A PARTIRE DAI FATTI
Il prof. Magatti partecipando ad un dibattito sul tema “pensare il futuro in tempo del Covid-19”, promosso dal Servizio della pastorale sociale della diocesi di Milano, ha affermato che è necessario iniziare a riflettere su un tempo profondo di cui non scorgiamo i contorni. E’ successo qualcosa di imprevedibile, in una società in cui si pensava di tenere tutto sotto controllo, perché un piccolo virus ha scompaginato tutta la realtà. Sinteticamente egli sostiene:
- con la pandemia c’è stata un’esposizione alla morte, non una morte privata come solitamente avviene. Questo ha prodotto un senso di smarrimento, di angoscia, ma nello stesso tempo ci ha portato a porre delle domande sul senso della vita e sul piano culturale: si può morire e si può morire in tanti! Sarà necessario rielaborare e imparare a convivere col mistero della morte, che per noi cristiani va associata all’annuncio della risurrezione.
- con la pandemia abbiamo riscoperto la nostra fragilità. Anche a livello economico più si cresce più aumentano le persone che manifestano qualche fragilità. Il Covid ha fatto risaltare questo tratto della nostra società: non siamo una società di persone forti, vincenti, ma siamo fragili da un punto di vista sanitario, sociale. E’ una condizione che ci accomuna e grazie alla quale diventiamo più umani. La fragilità ci aiuta a capire chi siamo veramente!
- con la pandemia abbiamo preso coscienza che è importante pensare ad una stagione nuova. La nostra società fatta di connessione, velocità e scambi si è fermata. Questo ha determinato un’esperienza collettiva straordinaria: insieme alle complicazioni economiche, politiche, sociali, ci ha messo davanti ad un percorso aperto. Questa rottura di un certo ordine può essere occasione per innescare processi di trasformazione. Siamo ad una svolta: o andremo meglio o andremo peggio. E’ importante che componenti importanti della società, come la Chiesa, contribuiscano a prendere la strada del meglio.
Su queste considerazioni si possono aprire delle piste di riflessioni che potrebbero portare ad alcune attenzioni per la nostra comunità cristiana che guarda al futuro:
- una pastorale che torna all’essenziale e cioè al Kerigma: non si può dare più per scontato l’annuncio che Cristo morto è risorto e che il destino dell’uomo è segnato dalla vita eterna (cfr Evangelii Gaudium 160-165). Siamo tutti discepoli e missionari: come portare il vangelo della gioia in questo nostro mondo, a partire dall’annuncio dell’indistruttibilità della vita? Come ripensare la catechesi in chiave kerigmatica? (dimensione escatologia);
- una pastorale che accompagna la fragilità umana con un’azione prevalentemente pedagogica, ponendo l’attenzione su chi è considerato lo scarto, possibilità per tutti per diventare più umani, anche per i non credenti. Come valorizzare e incoraggiare la solidarietà, la condivisione, la gratuità nella comunità cristiana? Come creare rete con quanti nel quartiere si occupano della povertà? (dimensione caritativa);
- una pastorale che innesca processi di trasformazione, intraprende nuovi percorsi, si apre al nuovo, attraverso l’esercizio della sinodalità. Siamo tutti sulla stessa barca come ha ricordato papa Francesco (discorso 27 marzo 2020). Considerando che indietro non si può tornare e da soli non si va da nessuna parte. Come vivere relazioni fraterne e autentiche all’interno della comunità? Come ‘costruire ponti’ tra realtà ecclesiali e le altre comunità parrocchiali della città? (dimensione comunionale);
- COSTRUIRE IL PONTE CHE NON C’È!
Ci stiamo accorgendo come la pandemia ha peggiorato situazioni pregresse. Dice sempre il prof. Magatti che è come se fossimo alluvionati e dobbiamo andare dall’altra parte, dall’altra riva ed allora si deve costruire un ponte, un ponte che non c’è.
In un epoca di distanziamento, dopo l’esperienza del lockdown, forse l’impresa da sostenere potrebbe essere questa di costruire ponti! E’ vero che potrebbe sembrare come un tornare alle cose di prima, ma non si tratta solamente di pensare cose nuove, ma di fare in modo nuovo le cose! Se la meta è ‘la terra promessa’, se vogliamo uscire da questa “terra alluvionata”, come un giorno Israele è uscito dal lungo e difficile deserto, l’unica possibilità è decidersi di mettersi insieme e ‘passare all’altra riva’. Il prof. Magatti ha paragonato questo grande trauma collettivo a quello che è avvenuto, al di là dell’immagine bellica, durante le due guerre mondiali. La prima guerra mondiale è finita male, tra l’altro scoppiò anche la spagnola (20/50 milioni di morte), in quanto non ci fu una proposta per trasformare quell’angoscia in una spinta positiva. La seconda guerra mondiale fu ugualmente una stagione di grande dolore ma produsse un esito opposto per la gran voglia che c’era nella gente di democrazia, di stabilità di benessere e si è riusciti a far partire un nuovo ciclo.
Anche oggi si tratta di far partire un nuovo ciclo, anche nella Chiesa, per cui è importante capire cosa veramente vogliamo, dove vogliamo andare e soprattutto farlo insieme, come popolo di Dio, valorizzando i talenti di ognuno.
- SI POTREBBE COMINCIARE DAL COSTRUIRE PILASTRI…
Se il discernimento avviene nello Spirito Santo, occorre mettersi in ascolto della Parola di Dio, ma non solo, anche del cuore umano, della creazione, degli eventi della storia, a partire da quanto ci siamo venuti dicendo in questo tempo. Potremmo mettere mano alla costruzione di pilastri necessari sui cui poggiare il ponte che ci permette di camminare. Quali potrebbero essere?
- Il pilastro della responsabilità. La pandemia ci ha aiutato a capire che l’idea che ognuno è libero per conto suo è falsa. La libertà è una relazione: ognuno può essere infettato o infettare per cui ognuno è responsabile nei confronti dell’altro. Occorre una conversione alla fraternità coscienti che siamo fratelli, non perché ci troviamo simpatici o perché se non ci aiutiamo andiamo a fondo tutti, ma perché figli dello stesso Padre.
Come possiamo far crescere il senso di corresponsabilità nel laicato? Come valorizzare i doni di tutti e trasformarli in ministeri? Come valorizzare gli organismi d partecipazione? Come coinvolgere le famiglie visto e considerata la loro importanza nella Chiesa in tempo di covid-19?
- Il pilastro della cura. Veniamo da una stagione in cui si è creduto che la crescita fosse un espandere e un accellerare, un correre di più e spesso questo ha creato grosse diseguaglianze. Forse oggi è necessario aprire cantieri di prossimità che impegnino in modo particolare i giovani: se torneranno in parrocchie lo faranno con una consapevolezza diversa, è avranno bisogno di proposte che non si limitino all’animazione, ai canti e alle danze, ma proposte di gesti che pesano. Come spesso ricorda papa Francesco, citando il profeta Gioele, si tratta di recuperare la capacità dei vecchi di sognare e dei giovani di avere visione. La speranza di tornare a prima è una speranza velenosa, occorre dare spazio al sogno più che ripetere meccanismi e procedure del passato. Oggi più che mai è richiesto un forte senso di affidamento, di una consegna reciproca, una conversione alla povertà come una sorta favorevole alla gioia e non una disgrazia.
Come si potrebbe valorizzare la dimensione caritativa, della solidarietà, della gratuità che la pandemia ha risvegliato, di fronte alla crescita dei poveri? Come dare dignità ad ogni persona, a partire da chi è considerato uno scarto? Come educarci al senso della sobrietà, della misura, del dono?
- Il pilastro dell’interdipendenza. Nessuno si salva da solo. Abbiamo visto che c’è bisogno di confini. Non esiste un mondo senza confini. Ogni spazio, ogni luogo necessità di un confine, lo spazio dentro cui la vita si può dare. Ma non abbiamo bisogno di confini sigillati, che contrappongono, ma di confini che stanno uno in rapporto all’altro. Tutti insieme abbiamo delle sfide da affrontare.
Come concretamente lavorare sulle relazioni personali e comunitarie? Come affrontare il tema delle tensioni, della gratitudine, del perdono, andando oltre la dimensione sentimentale, per arrivare ad un affidamento reciproco? Cosa ci potrebbe aiutare per vivere relazioni autentiche e fraterne tra tra realtà ecclesiali diverse, tra comunità in vista dell’Unità Pastorali?
Non si tratta subito di programmare, di riprendere da dove abbiamo interrotto! Questo è il tempo dove mettere in campo l’arte del pensare per avviare processi che concretizzano il sogno di Dio su questa nostra amata Chiesa!